Ed ecco, in un famoso elenco che sembra un po’ il compendio della sua poesia, il falegname che leviga la sua tavola, il cacciatore di anatre che avanza con passo felpato, il pazzo incurabile che viene portato al manicomio, il fumatore d’oppio con le labbra socchiuse, la prostituta che camminando strascina il suo logoro scialle, i manovali che camminano in fila indiana con il secchio in spalla e innumerevoli altri rappresentanti di un’umanità sempre nobile nell’aderenza al destino, scolpiti uno a uno dal verso che li nomina e con un pugno di sillabe trasforma l’effimero in eterno.
opere di Giancarlo Vitali
E se questo è il loro essere, «così più o meno sono io». Dove la cosa
più geniale e memorabile, davvero degna di un grande poeta, è quel «più o
meno», perché non si può nemmeno negare del tutto che le
differenze esistano, e che la commedia umana sia degna di essere raccontata
nella sua infinita varietà. Ma tutto ciò che vive è legato dalla profonda
solidarietà del creato: porta in sé il duplice mistero della bellezza e della
morte. Whitman potrà così
apparire indelebilmente, con tutti i suoi difetti, come il vero, l’autentico
poeta. Colui che ci ha insegnato a non mettere limiti all’empatia, e dunque a
non soccombere alla triste prigionia dell’identità. Perché alla fine ha sempre
ragione lui, noi siamo tutti gli altri, tutti gli altri
esistono in noi. «Più o
meno»: e dunque in modo anche più vero.
Emanuele Trevi su Walt Whitman - La Lettura 26/5/2019



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