Essendo informe e
insignificante il termine «gente» può acquisire un surrogato di concretezza
soltanto contrapponendosi a qualcosa: la Casta, appunto, gli immigrati,
i rom, gli statali, le multinazionali, le banche, le Ong. .. Qualcosa che viene
arbitrariamente ritagliato ed espulso dall’intero per dare all’intero
almeno un senso di «meno 1». I politici, per esempio, non sono
«gente» (anche se a guardarli intervistati dalle Iene la differenza onestamente
non si nota). La gente esiste solo se
c’è un nemico della gente.
Poi
la psicologia: il risentimento, come dice il titolo. Su questa
antipatica passione uno pensava di sapere tutto grazie ad autori come
Nietzsche, Scheler, Girard. Ma Bianchi mostra una volta di più come
la quantità si trasformi oltre una certa soglia in qualità, e come il risentimento,
un tempo un solvente che divide e disunisce, sia diventato la principale forma
di aggregazione sociale, onnipresente, impermeabile a ogni critica,
autoimmune.
Infine, in
un colpo solo, la causa e il destino — ovvero come andrà finire. La causa è una sola: non l’ingiustizia,
come si crederebbe (quella c’è sempre stata) ma l'assoluta impotenza a contrastarla.
L’impotenza e la sua consapevolezza. Il popolo qualche battaglia la
vinceva. We, the People... La sovranità appartiene al popolo...in nome del
popolo italiano... Sono tutte testimonianze di vittorie.
La
gente invece perde sempre. Per definizione. E lo sa.
Per questo
manifesta inutilmente, posta insulti inutilmente, spara inutilmente. L’indignazione
non ha nulla a che fare con la collera, passione anticamente ascritta
a dèi ed eroi da religioni e miti.
A vincere è soltanto chi la
raggira facendole credere di parlare in suo nome. E in qualche modo lo fa.
Nel definirsi «gente» c’è
un osceno e masochistico piacere di perdere che inibisce ogni empatia. Se
la gente è tutti e nessuno, a chi interessano le faccende di nessuno,
come già rimproveravano i Ciclopi a Polifemo?
Daniele Giglioli recensione a -La gente - di Leonardo Bianchi
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