sabato 7 ottobre 2017



Nelle nostre scuole non si educa al racconto orale e di conseguenza non si educa
all’ascolto che il racconto a voce esige e comporta. Eppure potrebbe essere un ottimo modo per creare un ponte tra generazioni, tra insegnanti che si sono formati
sulla pagina scritta e allievi che zigzagano fluidi tra un social e un altro, e sarebbe anche un ottimo ponte tra le etnie, le tante che ormai occupano i nostri banchi di scuola.
Quando racconta, un ragazzo si fa soggetto della narrazione, essa gli appartiene, diviene portatore di esperienze, non deve solo apprendere ma ha anche l’occasione di insegnare. Certo il suo linguaggio non sarà corretto letterariamente, il narrare a viva voce è fatto di slang, di forme dialettali, di sonorità, è un parlare vitale e rozzo, perché è l’intero corpo che narra, con i mutamenti del volto, la mimesi dei gesti, i diversi registri vocali. Quando si è posseduti dalla necessità di raccontare si diventa capaci di veicolare i propri racconti con innata maestria. I grandi narratori che ho incontrato nella mia vita, mia nonna, un vecchio zio, un professore delle medie, un amico pescatore, non sapevano nulla dell’arte attorale, né possedevano chissà quale bagaglio linguistico, eppure hanno creato per me grandi visioni delle quali tuttora mi nutro. È la qualità delle visioni che uno possiede a generare le parole per raccontarle ed è inutile lavorare a far crescere la quantità delle parole se prima non ci si dedica a far crescere la qualità delle proprie visioni.
Marco Baliani

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